Il viaggio dei diecimila. L'Anabasi di Sefofonte by Pino Pace

Il viaggio dei diecimila. L'Anabasi di Sefofonte by Pino Pace

autore:Pino Pace [Pace, Pino]
La lingua: ita
Format: epub
editore: Giunti
pubblicato: 2021-12-27T23:00:00+00:00


VIAGGIO DI RITORNO

CAPITOLO OTTO

Casa.

Per ogni soldato ellenico la parola “casa” significava una cosa diversa. Le città greche erano sparse per tutto il Mediterraneo, nel mar Egeo, nella Magna Grecia, fino a Massilia4. Ce n’erano altre lungo il Ponto Eusino5 e anche in Asia e in Europa, lontane dal mare. E poi chissà se un mercenario ce l’aveva davvero una casa. Ma non era il tempo di farsi troppe domande, dovevamo andare via di lì, salvarci la vita. Poi ognuno sarebbe tornato nel posto che chiamava casa, possibilmente più ricco di quando era partito. Prima che la colonna si mettesse in marcia ci raggiunse Mitridate, uno dei nobili persiani che erano stati al servizio di Ciro, e disse: «Permettetemi di unirmi a voi con i miei uomini».

Anche se eravamo comandanti giovani e inesperti, non gli permettemmo di avvicinarsi: più che un alleato ci sembrava una spia. E infatti, appena ci muovemmo, i suoi soldati cominciarono a provocarci e ad attaccare la nostra colonna, tanto che la retroguardia al mio comando dovette intervenire per respingerli e metterli in fuga.

L’alba del nuovo giorno trovò il nostro accampamento vuoto. Le tende, i carri e tutti i bagagli non indispensabili bruciavano in alte pire. Per non rallentare la marcia avevamo dovuto rinunciare a tutto, ma non avremmo lasciato niente al nemico.

Quando si è pochi contro tanti, deboli contro forti, digiuni e infreddoliti contro sazi e ben coperti, bisogna organizzarsi bene. Come ufficiale cavalcavo uno dei pochi cavalli rimasti, e con quello salivo e scendevo lungo la colonna dei Diecimila, davo indicazioni su come disporre avanguardia e retroguardia, in modo che avvertissero il grosso della truppa di ogni minaccia che arrivasse da chi ci inseguiva o da chi subiva la nostra invasione. Quando serviva nominavo nuovi comandanti. Dovevano essere soldati affidabili, capaci di far schierare gli uomini rapidamente in caso di un attacco improvviso, o di farli disporre nel modo più adatto quando si entrava in una gola o si percorreva un ponte. Riuscimmo anche a recuperare qualche cavallo per formare un piccolo reparto di cavalieri che potesse inseguire i nemici, e anche un gruppo di frombolieri, che con le loro fionde li tenessero lontani.

L’armata di Tissaferne si era mossa e ci inseguiva. Il governatore cercava l’occasione buona per attaccarci e sterminarci, ma ancora non l’aveva trovata. I soldati di Tissaferne ci stuzzicarono, ci attaccarono e subimmo alcune perdite, ma i nostri frombolieri tiravano sassi più lontano degli arcieri e dei frombolieri persiani e così li facemmo scappare. I nemici arrivarono a bruciare i villaggi sulla nostra strada, anche se appartenevano al re, per impedirci di raccogliere provviste.

Costeggiando il fiume Tigri incontrammo le antiche città dei Medi, Mespila e Larissa, abbandonate e distrutte, solamente alcuni tratti delle poderose mura di mattoni erano rimasti in piedi. I re persiani avevano provato a espugnarle, ma senza riuscirci. Solo un intervento divino, si racconta, spaventò così tanto gli abitanti da spingerli ad abbandonarle.

Arrivammo in alcuni villaggi non toccati dalla guerra dove ci fermammo a curare i feriti e a fare provviste.



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